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UNA QUESTIONE DI MEMORIA
25.04.2020

25 aprile 2020

Il griot è ancora oggi una figura fondamentale nella trasmissione dell’informazione culturale presso i popoli dell’Africa sub-sahariana. Nella lingua malinkè lo chiamano anche djeli che nelle sue varie forme significa “trasmissione attraverso il sangue”. Erano (in alcuni casi lo sono ancorauomini e donne con una funzione sociale fondamentale, che si può riassumere nel cementare l’identità di un popolo attorno a miti, leggende, eroi, sconfitte, vittorie, santi, regole, favole, oggetti, …

Erano viaggiatori che da villaggio in villaggio, mettevano in cerchio le varie generazioni per fare in modo che tutti si riconoscessero attorno ad un’idea di se stessi e del popolo a cui si ha bisogno di appartenere per saper rispondere all’eterna domanda: “chi sono io?”

Insomma esattamente quello che il mio amico e collega Jean-Pierre Piessou, mediatore culturale del Togo, mi ha raccontato negli anni, con modalità e linguaggi affascinanti, talmente semplici e autentici, da sembrarmi vivi, presenti a me stesso.

Mi ha detto che, nella sua cultura, quello era un ruolo molto rispettato ed importante, un mestiere che si tramandava di padre in figlio, grazie alla tradizione e traduzione orale, così come aveva fatto suo padre con lui, e prima ancora suo nonno con suo padre. Lo stesso modo in cui è arrivata gran parte della Bibbia a noi, finché non fu depositata per iscritto.

Il rapporto fra memoria collettiva e identità è una questione che si ripropone ad ogni ricorrenza, ogni volta che la collettività ci ripropone di fermarci per celebrare un evento, un fatto, un cambiamento come può essere l’inizio o la fine di un momento storico; una data che ha qualcosa da insegnarci per il presente e soprattutto per il futuro.

I nonni hanno sempre avuto questa funzione e, nella tradizione veneta, svolgevano questo importante lavoro nel “far filò”, raccolti tutti nel posto più caldo della corte, di solito la stalla, per affascinare i nipoti e far sorridere gli adulti raccontando le storie, quelle vere, o quelle interpretate.

I nonni stanno morendo in tanti e velocemente da qualche mese, soli.

In ogni caso, non avevano e non hanno più l’opportunità di “narrare”. Sono stati sostituiti dagli “story teller” personaggi che con, l’aiuto di immagini, filmati e potenti regie cinematografiche, si sono imposti nella trasmissione di identità e cultura proponendo figure dello sport, del cinema, della politica, della società civile tutta;  pur nel loro valore, propongono modelli culturali che in genere non rappresentano le nostre radici; anzi, irrompono nella vita dei nostri ragazzi attivando un meccanismo di imitazione totalmente fuorviante e in genere frustrante.

Vorrei essere, diventare come lui”. Ma un conto è desiderare di essere come mio padre, mio nonno, mio zio, il mio maestro, il mio capo, persone con cui lavoro, mangio e dormo assieme; un altro è provare a diventare un mito che, spesso, lo è solo dietro uno schermo con un bel numero di pixel, e con il quale non ho esperienza di vita ne valori da condividere.

Ci siamo allenati alla memoria a breve termine: siamo abituati ad incamerare poco e a dimenticare in fretta per far spazio a cose nuove, mentre è più difficile comprendere che la memoria a lungo termine è fondamentale per la creatività e per immaginarsi il futuro.

Rielaborare l’esperienza passata è il presupposto fondamentale per progettare quello che vorremmo diventare, come persone e come popolo.

Così come sappiamo che memoria e apprendimento sono strettamente connessi: dovremmo imparare facendo perno sugli errori nostri e altrui, selezionando le fonti e fidandoci, perché ne abbiamo fatto esperienza, delle persone che meritano la nostra fiducia; non di sconosciuti che, si ergono a portatori di verità: cosa diversa dal narratore, testimone di storie vissute da lui e dai suoi avi.

La narrazione del sè, il racconto è uno degli strumenti formativi e pedagogici più importanti: nella sua Teoria delle Rappresentazioni Sociali, Serge Moscovici ha ben descritto come le “credenze socialmente condivise, idee e valori ampiamente diffusi nel nostro sistema culturale, aiutano a dare un senso al mondo, all’ambiente che ci circonda. (Myers, 2009).

Ancoraggio e Oggettivazione sono i due momenti attraverso i quali, agganciandoci a immagini che si formano nella nostra mente, riusciamo poi a riconoscere noi stessi, e la nostra gente, negli oggetti e nelle esperienze concrete di vita. Non c’è rappresentazione sociale che non sia quella di un oggetto, sia pure mitico o immaginario;  ecco perché, ad esempio, riusciamo a fissare la memoria con l’arte, trasmettere valori morali, ideologie e regole comportamentali. Tutto il Rinascimento italiano è costellato da immagini che raccontavano storie al popolo analfabeta. E oggi sono la meta, sono opere ammirate da turisti di tutto il mondo.

Celebrare le ricorrenze, raccontarci ciò che è accaduto, riesce a rendere familiare ciò che è estraneo mediandolo in modo semplice con le nostre categorie mentali, favorisce gli scambi interpersonali e sociali, e forma la nostra identità sociale e il senso di appartenenza che si esprime anche nel riconoscerci e rispettare il sistema normativo, le leggi, che regolano il nostro stare insieme e che sono, in pratica, comportamenti desiderati o indesiderati, perché, ad esempio, vogliamo o non vogliamo che si ripetano fatti che sono accaduti nel passato.

Fatti che ci hanno resi felici o infelici: ecco perché sono importanti i luoghi della memoria, perché sono punto di incontro fra passato, presente e futuro e non luogo di dolore, rabbia o rivalsa.

Sono centri di aggregazione dei gruppi a cui si ritiene di appartenere, a partire dalle nostre famiglie: un’identità sociale che è possibile solo se si riconosce il diritto di esistenza dell’altro, anche dell’opposto, come portatore di una sua verità e di una sua storia, o della sua interpretazione della storia.

E’ 25 aprile.

 

Franco Cesaro.