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LE MANI, LA DIGNITA’.
01.05.2020

Guardo le mani in questi giorni, più di un tempo. Le mie e quelle degli altri.

Ho sempre pensato che le mani siano una specie di carta d’identità: è il mio primo sguardo per ogni persona che incontro, è più forte di me.

Mi autoconvinco di poter interpretare storie, personalità, attitudini, umanità, lavoro.

Non riesco a giudicare, anzi, mi autocensuro talvolta per il rispetto che vorrei sempre portare alle persone, immaginando questo mio sguardo come un’intrusione nell’intimità dell’altro.

Il fatto è che difficilmente mi sbaglio. 

E sono sempre più convinto che la prima forma di comunicazione, assieme allo scrutarsi nelle segrete degli occhi, specchio dell’anima, avvenga proprio dall’incontro delle mani.

Dalla notte dei tempi le mani raccontano della vita, del lavoro, della fatica: persino le culture più protettive, quelle che nascondono tutto delle persone, soprattutto delle donne, lasciano libere le mani. Sono lì, a cielo aperto, curate o meno, pulite o sporche, ruvide o lisce. Sono quasi sempre il risultato di una vita in cui si accentuano le differenze per quello che una persona fa nella propria esistenza: e per questo non posso fare a meno di collegare le mani al lavoro, alla creatività, alla cura, al benessere, nostro e degli altri. Il mio maestro Mihaly ha scritto e dimostrato che uno degli elementi fondamentali della “buona vita” è il lavoro manuale, il tempo dedicato a qualcosa che piace, anche se non remunerato: qualcuno lo chiama hobby.

In questi tempi le mani ci servono tante ore al giorno per digitare tasti di una o più macchine infernali che si chiamato computer, tablet, oggetti che, fra le altre cose, talvolta, servono per telefonare. 

E mi sento di avere sprecato tanta parte della mia vita, perdendo l’occasione di usare le mie mani per costruire, trasformare, lavorare la terra, abbellirla, per fare del bene, sostenere, spingere, tirare, battere, scavare…sono nato in un tempo dove lavoro e fatica fisica sono talvolta scollegati. Per molti è un privilegio.

Raramente, come in questi giorni, queste mani sono state usate così poco, se non per battere tasti, neanche per scrivere, che già sarebbe un ottimo esercizio per allenare neuroni e sinapsi: la scrittura, attraverso le mani, tiene il collegamento, la comunicazione, fra il mondo esterno e il mondo interiore delle persone. 

Soprattutto, la scrittura con le mani concederebbe di esprimere la propria identità, la personalità, gli aspetti del carattere che un perito calligrafico potrebbe decifrare, se scrivessimo con una penna e non battendo tasti di una macchina. 

Tutti uguali, uguali per tutti.

Questa è la mia idea di lavoro: il diritto di usare le mani, per realizzare se stessi. Con dignità.

L’articolo 4 della Costituzione, quello che più di ogni altro ci ricorda la centralità del lavoro, recita che

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Senza il diritto-dovere di usare le mani e di collegarle alla testa, e allo spirito, difficilmente faremo passi avanti, incupiti in modelli preconfezionati e, spesso, senza alternative, se non quelle di sperare che qualcuno ci dia lavoro, ci dica cosa fare e, di conseguenza, come organizzare il nostro futuro, la nostra vita, e quella delle nostre famiglie. Mani e cervello assieme per un’alleanza fra produttività e cultura che sono indispensabili allo sviluppo dei popoli.

Deve essere riconosciuto il valore del nostro tempo e della nostra intelligenza, di cui il mondo ha bisogno, soprattutto di quella dei giovani , come ricordava Antonio Gramsci: “«Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza». 

Era  il primo maggio del 1919 quando scrisse questa frase, in pieno tempo dell’influenza “spagnola” che, come in questi giorni, distribuì incertezza, dolore, solitudine, ma anche una grande opportunità per un diverso ordine delle cose, dopo il disastro di una guerra mondiale e in piena crisi economica.

Studiare, lavorare con piacere, avere tempo per divertirsi e per i nostri affetti. Spero tanto che in questi primi giorni di maggio, alla vigilia di una possibile ripresa delle attività, dopo un primo maggio 2020 decisamente diverso dal solito, con tutti i timori per il nostro lavoro, abbiamo la possibilità di pensare che esiste anche una possibile altra normalità, evoluta rispetto a quella di qualche mese fa, dove il rispetto di noi stessi, della nostra storia e del nostro ambiente possa essere l’orizzonte a cui tendere per un vero benessere e di una vera dignità delle persone.

Franco Cesaro